Ci fai o ci sei?

Perché le donne fanno mestieri “da femmine” e gli uomini fanno lavori “da maschi”? Il documentario Brainwash, uscito in Norvegia nel 2010, ha provato a spiegarlo e, a quasi 10 anni dall’uscita, è diventato il baluardo di “popoli della famiglia”, “no gender” e conservatori di ogni sorta. Per questo ne parliamo.

L’autore, un comico e sociologo norvegese, ha preso in esame il problema della netta distinzione tra i mestieri e ne ha cercato risposta, sia con un approccio biologico, sia con uno sociologico culturale e ciò che ha reso il video virale è cosiddetto “paradosso norvegese”.

Quando il documentario è stato girato la Norvegia era da poco stata eletta paese con la più alta parità tra uomini e donne e pertanto avrebbe dovuto essere teoricamente quello con minor spartizione tra sessi nel mondo del lavoro. Eppure la maggior parte delle donne svolgeva professioni di accudimento e relazione (infermiera, maestra, segretaria, ecc.) e la maggioranza gli uomini professioni in cui si costruiscono cose o sistemi (informatico, ingegnere, fabbro, ecc.).

Il Commissario delle Pari Opportunità dell’epoca, Kristin Mile dice, proprio nel documentario, che il governo aveva provato più volte ad applicare misure di compensazione di questo divario ma i correttivi non sembravano efficaci e il numero di donne impiegate nelle professioni scientifiche restava drasticamente basso, nonostante fossero quelle con le performance migliori durante gli studi.

Alcuni biologi sostengono che questa distinzione derivi da caratteristiche innate, in contrasto con i sociologi che la ritengono frutto di una influenza culturale.

I sociologi infatti spiegano il fenomeno con le aspettative assorbite in modo inconscio sin dalla nascita da maschi e femmine e gli studi sulla percezione sembrano confermarlo: se mostriamo un neonato a un pubblico di estranei avvolto in una coperta rosa riceverà commenti di natura estetica (“che bella bambina”), in azzurro riceverà commenti sulla sua simpatia (“che faccia da furbetto”). In pratica, chi approccia un problema da un punto di vista culturale sostiene che, per quanto ci si sforzi di trattare i bambini in modo “neutro”, la società influenzerà il carico di aspettative che riponiamo su di essi e determinerà alcune loro future scelte, suggerendo alle femmine che è gratificante essere belle e buone e ai maschi che piacciono di più se sono furbi e ambiziosi.

Per un riscontro scioccante di tutto ciò basta entrare in un negozio di giocattoli e esplorare le corsie dedicate alle bambine, piene di mini elettrodomestici e banchi per il trucco, e quelle per i maschi, zeppe di giochi di ruolo (meccanico, inventore) e costruzioni. Quali siano le aspettative sui due sessi – nel negozio di giocattoli – sembra piuttosto chiaro.

C’è invece una corrente scientifica che sostiene l’innatismo e vede come una forzatura quella di invertire la separazione tra i generi nelle professioni.

È particolare il fatto che in India la percentuale di donne che si dichiarano interessate alle professioni scientifiche è più alta che nei paesi europei.
Secondo i sostenitori dell’innatismo la spiegazione più probabile è che, laddove il lavoro scarseggia ed averne uno segna il confine tra essere libere o dipendere da un uomo, le donne sono disposte a “forzare” la propria natura. In condizioni di benessere, come per esempio in Norvegia, le donne non accetterebbero di sacrificare la propria inclinazione.

Lo psicologo Simon Baron Cohen svolge ricerche per dimostrare che più sono alti i livelli di testosterone prenatale, minori saranno le capacità di sviluppo del linguaggio e dell’empatia. Intervistato, dice che è tutta una questione ormonale: più alti sono quelli maschili, meno sei predisposto alle relazioni.

La psicologa dell’evoluzione Anne Campbell dà la sponda a questa ipotesi dicendo che, per ragioni di sopravvivenza della specie, l’evoluzione potrebbe avere privilegiato per le donne istinti vicini alla maternità e all’accudimento della prole, pertanto il cervello si sarebbe sviluppato nei secoli con questo marchio.

La querelle tra biologia e cultura però non ha oggi una risposta definitiva.
Il documentario, per ammissione dello stesso autore, è sbilanciato sulle posizioni di biologi ed evoluzionisti, perché pensato per un paese indubbiamente femminista, la Norvegia, e voleva essere provocatorio per aprire un dialogo sul tema e non certo per liquidarlo dando per certa la risposta degli innatisti.

Oggi, peraltro, la Norvegia registra un divario nettamente inferiore a quello di 10 anni fa, segno che, forse, i correttivi sul lungo periodo hanno funzionato e il paradosso norvegese un domani potrebbe non esistere nemmeno più. Ci sono poi diverse altre obiezioni che potrebbero essere fatte al documentario: il fatto che la Norvegia avesse un alto livello di parità di genere non significa che sia un paese equo al 100% (in realtà i rapporti internazionali parlano di parità raggiunta al 70% circa dei parametri considerati) o che sia isolato dal resto del mondo e non ne subisca alcuna influenza culturale.

Ma se anche domani venisse provata una tendenza naturale delle donne a svolgere lavori di relazione cosa cambierebbe per la nostra società?

Intanto si tratterebbe di una tendenza, con prevedibili eccezioni. Ma soprattutto le vere problematiche connesse alla divisione tra sessi nelle professioni resterebbero vive e comunque legate a temi socio culturali: la differenza salariale a parità di impiego, la scarsità di donne in posizioni di rilievo (anche nelle professioni di relazione) e il diverso prestigio sociale tra categorie professionali.

È davvero utile, quindi, determinare un innatismo biologico? Il problema reale non è se le donne diventano infermiere o pilota per natura ma il fatto che un ingegnere sia considerato socialmente più prestigioso di un’insegnante (che pure ha il delicatissimo compito di educare le future generazioni) e che una donna ingegnere arriverà a guadagnare quasi il 30% in meno di un collega maschio suo pari.
E queste differenze sono culturali, sociali, così come lo sono quelle sulle cure parentali e la gestione della casa. E solo perseguendo un modello educativo che tenda ad azzerare le influenze sociali che causano queste problematiche riusciremo a creare una società migliore.

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