A 19 anni stavo con un bravo ragazzo: studiava all’università, faceva qualche lavoretto per mantenersi e giocava a calcio in serie minori. Ogni anno ad agosto lo attendeva la preparazione atletica e le sue vacanze consistevano in due settimane di allenamenti full time.
Quell’estate decisi di restare a Milano con lui. Ero molto innamorata, non volevo lasciarlo solo nella città svuotata ed ero entusiasta all’idea di convivere due settimane nella casa dei miei genitori, che sarebbero partiti per il mare, accudendolo come una mogliettina.
Ricordo un primo giorno esaltante: cenetta romantica, dormire abbracciati… Non avevo però fatto i conti con la realtà: lui avrebbe avuto gli allenamenti tutti i giorni, dalla mattina alla sera, in città non c’era nessuno, i miei amici erano al mare, internet non era quello di oggi, il cellulare era un bene di lusso e la televisione proponeva un palinsesto di repliche deprimente.
Al secondo giorno ho capito di avere fatto una cazzata: le giornate erano infinite, noiose… temporeggiavo pulendo casa, in attesa del suo ritorno, come un cagnolino che scodinzola dietro la porta.
Lui tornava stremato, mangiava con gli occhi a mezz’asta una cena 8 portate e crollava a letto. Io ero sveglia come un grillo, truccata e pettinata come se aspettassi la limousine, annoiata, sola, demoralizzata e frustrata: mi sentivo una sfigata.
Quell’estate capii la fregatura di rinunciare al ruolo di protagonista della mia vita.
Lui stava in mezzo ai compagni tutto il giorno. Faticava, certo, e non era al mare nemmeno lui, ma la sua giornata era piena di scambi, divertente, aveva uno scopo che motivava il suo sacrificio e la sera rientrava soddisfatto. Io dipendevo da lui, non stavo costruendo niente, se non la fantasia davvero vintage di fare la first lady.
Perché avevo rinunciato alle vacanze? Perché avevo ambito a stare a casa ad aspettarlo?
Identificavo l’essere adulta con l’immagine della mogliettina accudente. Volevo inconsciamente dimostrare che ero pronta a prendermi cura di lui e in un certo senso volevo che lo sapessero anche i suoi genitori: guardate come sono brava, me lo merito proprio vostro figlio.
Eppure mia madre aveva sempre lavorato, il suo stipendio era importante per la nostra famiglia, mio padre ha sempre pulito, cucinato, ci veniva a prendere a scuola tanto quanto lei… non venivo certo da un contesto tradizionalista, non c’era motivo razionale per cui io inseguissi quello stereotipo (peraltro mia madre aveva definito il mio piano “fare la cozza attaccata allo scoglio“).
L’altra sera ero a cena con una amica più giovane, che convive da poco. Si scherzava sulle difficoltà dei primi tempi e mi ha molto colpito il fatto che si sentisse in difetto perché riteneva di non stirare abbastanza bene le camicie del suo compagno. Si sentiva in colpa, non voleva che la suocera pensasse che suo figlio fosse abbandonato (al tragico destino di avere le camice stirate male), non accudito.
L’amica in questione è una brillante ingenera, con un ottimo impiego, che studia per prendere un’ulteriore specializzazione universitaria.
Lì per lì abbiamo riso, ma una volta a letto mi è tornata in mente quell’estate di quasi 20 anni fa, quell’ansia di dimostrarmi angelo del focolare e mi ha pervaso un senso di ingiustizia.
Né il suo compagno né il mio (nessuno dei miei fidanzati negli ultimi 20 anni) si sarebbe mai sentito in colpa verso la mia famiglia o la società, per non saper stirare a regola d’arte, non essere un cuoco provetto o non farmi trovare la casa splendente.
Nessun uomo ha mai pensato di dover misurare il proprio valore, o che la mia famiglia e gli amici comuni lo avrebbero giudicato, sulla base delle competenze domestiche.
Perché invece io e la mia amica ci siamo trovate a gestire questo pensiero? Perché nel 2020 lo sentiamo ancora come un nostro implicito dovere?
La mia famiglia mi ha insegnato l’importanza di essere ambiziosa, libera e indipendente e probabilmente così ha fatto anche quella della mia amica ingegnera. Ma il loro insegnamento non può bastare se attorno c’è un mondo intero che suggerisce continuamente altro. Mia madre e mio padre nello scenario complessivo, sembrano un’eccezionale eccezione.
Nei film, nei libri, nei dei problemi di matematica, nelle pubblicità… ovunque, le mamme sono donne di casa che fanno torte, dedite alla famiglia, perfettamente appagate dall’accudimento del marito e dei figli.
Mia mamma è una donna davvero in gamba, che nella retorica comune però ha “sacrificato” (le parole sono importanti) il tempo con i suoi figli, per lavorare. È la stessa cosa che ha fatto mio padre, in effetti, ma sembrava contare solo nel suo caso.
Una sorta di subdolo ribaltamento del significato: io e mio fratello eravamo sfortunati, perché mia madre non si era potuta dedicare a tempo pieno a noi. E invece nessuno sottolineava l’incredibile fortuna di avere una madre che, col suo esempio, ci stava rendendo liberi e autonomi.
Mia madre ha sempre amato il suo lavoro, si fermava più del dovuto, nel gruppo dei colleghi era un personaggio chiave e vederla in ufficio ci ha sempre inorgoglito tutti. Il momento più complesso della sua vita è stato forse andare in pensione e perdere la possibilità di dare il suo contributo alla società.
La retorica comune sottolinea continuamente il “sacrificio in quanto madre” delle donne che, come lei, lavorano e non parla mai del “sacrificio in quanto donna” di quelle che rinunciano a una vita pubblica e l’arricchimento che una persona soddisfatta della propria vita porta alla famiglia.
Questo sbilanciamento inculca un giudizio: le mamme che lavorano danneggerebbero chi amano, per egoismo. Perché vale solo per “le mamme”?
Le donne subiscono questa pressione per tutta la vita e a 30 anni si trovano a sentirsi in colpa perché non stirano come la suocera e a 60 giudicano la nuora per come stira, perché la considerano una cosa importante.
Combattiamolo, questo pensiero. È dannoso per tutti, anche per gli uomini.
Avere un impiego, essere pagate e gratificate per il proprio lavoro, essere calate nella società è importante tanto per noi quanto per gli uomini e non c’è nessuna regola o ragione biologica che impone l’accudimento e il carico domestico solo alle femmine.
La convivenza, la famiglia, sono progetti di coppia, vanno costruiti insieme e condivisi. II figli li amano entrambi i genitori, a prescindere da chi dei due prepari la cena. Non siamo inadeguate se dopo una giornata di lavoro non stiriamo perfettamente (o affatto). Del resto non stira perfettamente nemmeno il nostro partner ed è forse più importante ricordare che se non fossimo soddisfatte della nostra vita pubblica rischieremmo di riversare ansie e aspettative sulle nostre famiglie, in modo ben più dannoso di una piega sulla camicia.
Il cambiamento parte da noi, iniziamo a liberarci.
Concordo a pieno, questa mentalità di mascolinità tossica e stereotipi di genere fa male a tutti e tutte.
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Certo, è un danno per tutti.
Ingabbia le donne in ruoli subalterni e limita o umilia la sensibilità degli uomini, che devono mantenere per forza uno standing virile.
Anche la più frivola delle conseguenze (in questo articolo, in fondo, si parla di un’estate persa o di abiti da stirare… qualcuno potrebbe dire “E che sarà mai…”) è comunque grave, perché esprime (e radica) una mentalità tossica.
Grazie per averci letto 🙂
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